Fabrizio Cotognini, Come è profondo il mare
Testo: Riccardo Tonti Bandini

Tutto l’amore della mia fresca anima bramosa confluiva in una grande nostalgia e si mutava in lacrime, mentre l’occhio beveva con sguardo ammaliato la soavità del lontano azzurro.

Hermann Hesse, L’azzurra lontananza

 

 

L’universo che abbraccia i continenti e le isole è da sempre l’immensa fonte di racconti, di immagini e di visioni che hanno contribuito a costruire la cultura occidentale. L’abisso degli oceani cela ancora i segreti più nascosti. I mari spiegati pongono gli equipaggi dei natanti nelle condizioni di isolamento umano nella percezione dell’ignoto. 

Alla fine del XVI secolo, Pierre De Lancre, tra i più terribili magistrati e inquisitori francesi, scrisse che il mare era l’origine della vocazione demoniaca di un popolo. L’affaticamento, la quotidiana insicurezza dei naviganti, la condizione obbligata di avere esclusivamente gli astri come punti di riferimento e la vita sospesa sull’immensa distesa agitata, secondo De Lancre erano la causa del declino della fede in Dio e della fiducia nella patria. L’uomo allora si abbandonava al diavolo e all’oceano delle sue astuzie.

La navigazione lascia l’essere umano all’incertezza della sorte, ognuno è affidato al proprio destino, ogni imbarco potrebbe essere l’ultimo viaggio. Nel periodo tra il Basso Medioevo e l’Età moderna, i fiumi, i laghi e i mari europei erano solcati da navi cariche di folli e di malati senza più speranze. La Stultifera navis era una sorta di prigione galleggiante dove vi erano rinchiusi i “diversi”. Un’anima-navicella abbandonata sul mare infinito dei desideri nella speranza che il soffio di Dio la conduca in porto. Un manicomio natante o un meccanismo di esclusione, per come potremmo intenderlo noi oggi. 

I mari dunque appartengono a uno spazio privilegiato che mette in stretta relazione l’essere umano con sé stesso in un clima eroico. Per questo motivo anche l’avventura di un breve tragitto o il passaggio di un punto stretto insidiato da forti correnti era vissuta e raccontata con una spiccata componente valorosa. La letteratura è intrisa di personaggi audaci e racconti legati alla dimensione sovrumana, ma non tutti hanno avuto la potenza di contaminare nel profondo la cultura. 

La potenza dell’opera d’arte ha la forza di contaminare i modelli culturali di diversi paesi, ha l’energia di diffondere la propria identità e mutare il complesso di conoscenze e credenze proprie di un’età, di una classe o categoria sociale, di un ambiente. La cultura si diffonde come un virus, per contatto. Un’immagine tridimensionale di questo concetto la si trova in Vaticano. La statua bronzea di San Pietro in Cattedra, situata nella Basilica di San Pietro e attribuita allo scultore del ‘200 Arnolfo di Cambio, ha il piede destro visibilmente levigato, tanto che le dita non si distinguono più. È la mutazione causata dal gesto tattile delle genti in pellegrinaggio durante il corso dei secoli. Per essere contaminati bisogna “toccare”, bisogna vivere l’esperienza, è necessario lasciarsi contagiare. 

La mostra The Flying Dutchman segna la strada di un grande théatron, che si collega al tema del verbo theaomai, “guardare”, dove Cotognini mette in scena l’Olandese volante, in uno stretto dialogo con gli spazi storici di Palazzo Buonaccorsi e immerso nel trionfo tardo Barocco della Sala dell’Eneide. Ogni volta che l’arte del presente incontra i luoghi suggestivi del nostro patrimonio museale, si costruiscono delle relazioni, dei legami simultanei tra la cultura del nostro tempo e la civiltà del passato. L’opera d’arte è un atto di resistenza: è un atto di resistenza contro il tempo e contro la morte.

Richard Wagner teorizzò l’idea di un teatro come opera d’arte totale, sperimentò la ricerca della dimensione tautologica tra vita e arte. Supervisionò la progettazione del teatro di Bayreuth apportando delle innovazioni che rendevano l’esperienza dello spettatore una immedesimazione totale, ultra coinvolgente per quel tempo. La grande orchestra, assieme al direttore, era posizionata nel “golfo mistico”, una buca sotto al palcoscenico che la nascondeva, avvicinando, così, di gran misura, il palco allo spettatore, la scena al fruitore.

Il lavoro di Fabrizio Cotognini è una grande ouverture sinfonica che introduce il racconto dell’immensa opera dell’Olandese volante, ne traccia già delle caratteristiche, è lo scenario di una geografia semi-reale e semi-immaginaria allo stesso tempo. Non è un racconto didascalico, tutt’altro che cattedratico, sopra i canyons più profondi l’artista prende una nave, meglio un “brigantino velacciere”, e naviga come un corsaro tra le isole dell’immaginario collettivo, dal Mediterraneo all’Europa del Nord. Nella visione corale spettacolarizzata, la figura dell’Olandese volante è declinata secondo una moltitudine di differenti visioni, dai riferimenti più aulici e colti a quelli più popolari. Secondo Guy Debord lo spettacolo è la principale forma di produzione della società attuale, lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine. La ricerca sull’Olandese volante appartiene a un filone di indagine recente, un nuovo confronto con opere teatrali immani come Faust, Parsifal, Salomè che hanno influenzato il modo di essere occidentali.

L’uomo europeo intende il mare come un luogo incessante di inquietudine, che nasconde saperi strani, è una pianura fantastica, misterioso luogo di separazione, è il rovescio del mondo. Le stampe originali su cui lavora Cotognini rappresentano proprio questo: sono la visione ribaltata del mondo. Nella stampa d’arte, l’incisore ha un modus operandi speculare alla realtà delle cose, per un fedele risultato egli è costretto a cambiare la destra con la sinistra e viceversa. Come da dietro uno specchio, l’artista vede il mondo da una posizione privilegiata, da una dimensione parallela e tangibile.

Il confronto con l’inestinguibile fonte della grafica d’arte è una delle propulsioni del lavoro di Fabrizio Cotognini. L’intervento dell’artista sulla stampa originale non è affatto un’azione iconoclasta, ma è la struttura della conversazione con la forza del passato, con la tradizione aulica. Le prospettive possono collimare iconograficamente, i segni sono espressioni che indicano la colta relazione sui contenuti, non un rapporto formale, ma la contrazione di una distanza. Come un’araba fenice, la tradizione risorge dalle proprie ceneri nell’indagine perpetua dell’affermazione sul tempo corrente. «Viviamo in un Overlook Hotel a cielo aperto, cavalchiamo un serpente che continua a mangiarsi la coda e abitiamo in un mondo che rigurgita davanti a sé sempre e solo copie sbiadite di un tempo che ci sembra di avere già vissuto».

L’altissima qualità della rappresentazione formale e il formato minuto fanno di queste stampe delle meraviglie preziosissime. Filosofi, trattatisti, poeti, storici, romanzieri, pittori e peintres-graveurs hanno lasciato testimonianza della loro attenzione verso la stampa, a conferma che l’incisione ha svolto un compito prossimo alla scrittura per la trasmissione e la conoscenza della letteratura, della pittura, della scultura e dell’architettura, costituendo quasi un vettore tra parola e immagine. L’incisione e la stampa, liberate dai debiti verso le altre arti, si pongono come una libera rielaborazione dei materiali in funzione dell’invenzione artistica. Il lavoro di Cotognini, in questo senso è emancipato dalla rappresentazione, ma le sue figure sono opere di invenzione pura.

Non poteva mancare il riferimento ad uno dei pittori-incisori più conosciuti di sempre, Rembrandt Harmenszoon van Rijn. Molti dei suoi autoritratti sono di piccole o piccolissime dimensioni e sono degli esempi estremi dei tentativi compiuti dall’artista olandese di usare lo stile e la maniera dei disegni nelle acqueforti. L’incisione calcografica non ha la stessa resa del disegno, semmai ne è la traduzione. La traduzione cerca di trovare quell’atteggiamento verso la lingua che si traduce, che possa ridestare in essa, l’eco dell’originale.

«… io ho veduto diverse sue Opere in stampa comparse in queste nostre parti, le quali sono riuscite molto belle, intagliate di buon gusto e fatte di buona maniera, dove si può argomentare che il di lui colorire sia di parimente di tutta esquisitezza e perfetione, et io ingenuamete lo stimo per un gran virtuoso». Così scriveva Guercino, intorno al 1650, a proposito di Rembrandt in una lettera a Don Antonio Ruffo di Messina, che gli aveva chiesto di dipingere un pedant per una tela dell’artista olandese presente nella sua collezione.

In questo gioco di segni e linguaggi, si pone Cotognini che interviene sopra la stampa con un segno ricco e raffinatissimo, fatto di intrecci e linee parallele tipiche dell’incisione.

Nel territorio della regione Marche, se si parla di grafica d’arte è d’obbligo citare una realtà formativa che è stata unica in Europa agli inizi del ‘900: la Scuola del Libro di Urbino. Non esistevano altre scuole specifiche per la produzione e decorazione del libro, né in Italia né in Europa. Vi si sono formati numerosi artisti divenuti famosi, e diverse figure tecniche, come alcuni bulinisti della Zecca dello Stato e stampatori che hanno edito negli anni ’60/70 le grafiche di artisti del main stream dell’arte contemporanea. La Scuola del Libro ha creato un tessuto ricchissimo in coerenza con la cultura del territorio di Urbino e del Montefeltro, una cultura che viene da lontano; si pensi al grande patrimonio rappresentato dai codici della Biblioteca del Duca Federico, oggi conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana.

La mostra di Fabrizio Cotognini è da leggere come un corpus unicum formato da arcipelaghi. In ogni opera d’arte, il suo porsi come forma e come organicità è testimonianza di una legge interna che la costituisce, più o meno rigidamente, e che possiamo chiamare “unità dell’opera d’arte”. Ogni parte è in relazione con il tutto con duplice funzione: di costituirlo e di esserne costituita, in una specie di movimento verso il centro, verso la sala dell’Eneide. L’opera d’arte diventa qualcosa di più dei suoi elementi.

La ricerca del ricco segno nel dettaglio è un elemento ricorrente e caratterizzante l’opera dell’artista, è un’ossessione che ritorna. Il continuo superamento dei confini è un’azione irrinunciabile per un approccio spontaneo al lavoro. Un artista non può sottrarsi alla nuova visione di uno spazio esterno ed estraneo alla propria dimensione, solidamente incatenato all’infinito crocevia.

Esiste, in mare, un effetto ottico chiamato “miraggio superiore” o “Fata Morgana”, che ha ispirato molte leggende, tra cui proprio quella della nave fantasma dell’Olandese volante e che si chiama così per le visioni dei marinai che vedevano imbarcazioni sospese, castelli in aria, o in terra. La sospensione esoterica rappresenta il confine tra due dimensioni rovesciate, è il punto dell’orizzonte in cui le azzurre lontananze coincidono sulle tonalità cromatiche, coesistono due mondi che appartengono al cielo e al mare. 

Se il mare è il ribaltamento del mondo, l’abisso ne è il punto più alto.