Fabrizio Cotognini, The Flying Dutchman. La “Grande Opera” di Fabrizio Cotognini
Testo: Eugenio Viola

LA MADRE: Così ci rivediamo, figlio mio adorato! 

L’OLANDESE: Cara mamma, ci rivediamo, sì! 

Ho navigato i miei sette anni, senza una meta; e il porto lo vedo solo ogni sette anni.

Quale prova mi attende adesso? 

LA MADRE: Figlio mio, lo sai! 

L’OLANDESE: La stessa di sempre?

LA MADRE: Sì! 

L’OLANDESE: La più dura, dunque! Ma quante volte dovrò ripeterla? 

LA MADRE: Finché ce la farai! Senza un lamento.

August Strindberg, L’olandese

 

L’arte e l’alchimia intrattengono una relazione di lungo corso che risale alla notte dei tempi. La figura dell’alchimista è tradizionalmente associata a quella dell’artista: l’alchimista è definito “artefice”. L’alchimia Magna Ars: la “Grande Arte”. Il processo alchemico Opus, ovvero la “Grande Opera”. Una prossimità semantica attentamente studiata per evidenziare e suggerire una comunanza concettuale di obiettivi e di esiti tra le due discipline.

Si potrebbe addirittura affermare che l’arte è sempre stata alchemica, sia sotto il profilo teorico che tecnico: basti pensare alle attività quotidiane legate alla manualità dell’artista che implicano, in pittura, azioni quali macinare minerali e vegetali, mescolare e misurare le quantità di colorante, diluire con sostanze leganti per creare i pigmenti; in scultura le sperimentazioni tese a investigare le proprietà dei metalli e i procedimenti di fusione. Spesso nell’esperienza artistica, l’incontro con l’alchimia avviene proprio per esigenze strumentali di sperimentare pigmenti inalterabili o migliori tecniche di modellazione della materia, nel tentativo, irriducibilmente romantico, di sfidare il tempo per donare immortalità alla propria opera.

Sotto il profilo tematico e teorico, per secoli l’arte attinge alla vasta simbologia alchemica, popolando le opere degli artisti di figure, emblemi, rappresentazioni e allegorie che a noi appaiono oggi arcani, e che derivano dall’ermetismo neoplatonico e dal rosacrocianesimo. L’iconologia ci permette di leggere attraverso la lente interpretativa dell’alchimia le opere di numerosi artisti che costellano la storia dell’arte occidentale, dal Rinascimento a oggi. D’altronde, «l’alchimista e l’artista – osserva opportunamente Arturo Schwarz – condividono la stessa ambizione: fare per conoscere e conoscere per trasformare sé stessi e il mondo. Alchimia e arte aspirano ad essere sistema di conoscenza e strumento di trasmutazione».

Basti pensare all’opera di Jan van Eyck, Lucas Cranach il Vecchio, Giorgione, Cosimo Rosselli, Hieronymus Bosch, Sandro Botticelli, Leonardo Da Vinci, Dosso Dossi, Lorenzo Lotto, Albrecht Dürer, Michelangelo Buonarroti, Rosso Fiorentino, Tiziano, Parmigianino, Domenico Beccafumi, El Greco, Domenico Fetti, Georges de La Tour, Rembrandt, Guercino, Guido Reni. 

E ancora, nel corso del Secolo breve (Eric Hobsbawm), all’opera di Marcel Duchamp, Victor Brauner, Salvator Dalì, March Chagall, Max Ernst, René Magritte, Vasilij Kandinskij, Paul Klee, Kazimir Malevič, Jackson Pollock, Yves Klein, Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Matthew Barney, Berlinde de Bruyckere, Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi, Damien Hirst, Rudolf Stingel. E nel panorama italiano, di Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Gilberto Zorio, Gino de Dominicis, Vettor Pisani, Lucio Del Pezzo, Mimmo Paladino. Un fil rouge sottile unisce queste figure tra loro molto diversi, oltre alle differenze spazio-temporali, nella cui ricerca, spesso ricorrono e si rincorrono simbologie inerenti al repertorio ermetico e alchemico. 

La Grande Opera di Fabrizio Cotognini mi rammenta il modus operandi di un artista rinascimentale, la cui Weltanschauung è sospesa tra la ricerca di una rappresentazione grafica del mondo e l’aspirazione a porla come propria indagine scientifica, nel tentativo di dominare la realtà fenomenologicamente. Per questo, centrale è nel suo lavoro la pratica del disegno, vera e propria base fondante del suo Opus, espressione di un Theatrum mundi contemporaneo e visionario, al cui interno si dispongono le immagini simboliche che abitano il suo vocabolario espressivo, i suoi assilli tematici, le sue ossessioni. Difatti non è un caso che la cultura visiva di Fabrizio Cotognini incontri quella performativa e teatrale, ibridando spregiudicatamente media diversi, utilizzati alla stregua di elementi modulabili e declinabili all’infinito, di attrezzature teatrali e arredi scenici, in cui la realtà viene scomposta per poi rivelarsi attraverso un meccanismo di progressivo disvelamento di senso.

Nel complesso, mi pare che la ricerca di Fabrizio Cotognini sia profondamente permeata da quello che mi piace definire, con Giorgio Agamben, un approccio archeologico al presente, ovvero dal costante riferimento all’antico, utilizzato per indagare sottilmente le lacerazioni e le inquietudini della contemporaneità. Pertanto, «le indagini storiche sul passato sono soltanto l’ombra portata di un’interrogazione teorica del presente». Cotognini attinge al repertorio iconografico del passato, studia gli erbari e i bestiari medievali, si interessa ai segreti alchemici e misteriosofici che dissemina in sequenze di immagini e storie, ibridandole con visioni distopiche post-apocalittiche, ispirate a suggestioni cyberpunk, ovvero a un ipotetico, fantascientifico futuro distopico.

Cotognini cortocircuita elementi provenienti da stratificazioni temporali divergenti, ponendoli in una dimensione parallela, segnata da slittamenti, pieghe e discontinuità. Non a caso, emblematico nel suo vocabolario espressivo è l’utilizzo di incisioni antiche che l’artista sapientemente riattualizza per restituire una spiazzante “archeologia del presente” che emerge da vere e proprie opere-palinsesto, da ready-made modifié su cui interviene con velature di colori. Sovrapposizioni talvolta impercettibili e quasi trasparenti, altre volte più spesse e materiche, lasciano così affiorare frammenti di figurazione che suggeriscono un’estetica del frammento enfatizzato; attivano un processo di rarefazione ma anche di esaltazione e risemantizzazione delle immagini, che confluiscono in un archivio della memoria potenzialmente infinito, da cui emergono echi di un personalissimo universo simbolico. 

Ho conosciuto Fabrizio Cotognini quando era ancora uno studente all’Accademia di Belle Arti, e ho avuto la possibilità di seguire, nel corso degli anni, l’evoluzione del suo lavoro, sempre coerentemente abbinata a un’unità di pensiero e progettuale estremamente coerente e legata a una ricerca teorica seria, che ha sempre supportato nel tempo la sua Grande Opera, sempre formalmente impeccabile e concettualmente ineccepibile. I suoi ultimi lavori, cresciuti esponenzialmente in ambizione e scala, si fondano su una sintassi teatrale che, in un gioco costante di rimandi colti e citazioni, riutilizza e ibrida medium diversi spregiudicatamente, alla stregua di elementi modulabili e declinabili all’infinito. 

The Flying Dutchman (2021) è un progetto complesso che include una pluralità di media, dal disegno all’installazione, dalla scultura all’animazione, ed è concepito come un unico grande environment: uno spazio immersivo e ossessivo in cui lo spettatore è catafratto; un luogo distopico dove passato, presente e futuro, appiattendosi su sé stessi, si fondono confondendosi. Cotognini allestisce qui un vero e proprio “teatro d’immagine”, in cui lo spazio dell’arte incontra il tempo del teatro. 

La leggenda del vascello condannato a navigare all’infinito senza mai trovare pace per aver violato una legge non scritta, legata all’onore, al mare o agli dei, è un archetipo narrativo apparentemente nato nell’ambito del folclore nordeuropeo. Quasi una versione marinara della leggenda dell’Ebreo errante, colpevole di aver schernito Cristo che saliva al Calvario, e per questo condannato a vagare per l’eternità sulla Terra, invecchiando ma senza mai poter morire. Senza mai trovare riposo, quiete e pace. The Flying Dutchman è una storia paradigmatica della hybris prometeica che appartiene anche all’omerico Odisseo: un accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze e dunque esprime la tracotanza, la superbia, la presunzione di chi, per superare i propri limiti, sfida sé stesso e Dio. Numerose le opere a essa ispirate. Su tutte: Der Fliegende Holländer di Richard Wagner (1843). 

The Flying Dutchman di Cotognini restituisce un percorso espositivo «intermediale» (Rosalind Krauss), disseminato da disegni, incisioni modificate, sculture e installazioni ispirate alle rappresentazioni che si sono succedute, nel corso dei secoli, dell’Olandese volante. Si alternano, come sempre nella pratica di Cotognini, riferimenti indifferentemente attinti alla tradizione aulica della storia dell’arte – da Willem van de Velde ad Andreas Achenbach, da Osvaldo Licini ad Anselm Kiefer – come a quella letteraria – da Richard Wagner e August Strindberg a Joe R. Lansdale. Queste fonti incontrano l’universo del fumetto (Zio Paperone e il vascello fantasma), del cartone animato (l’esilarante Frying dutchman nella celebre serie americana The Simpsons, 2017), del cinema (la nave fantasma dei Pirati dei Caraibi, di Gore Verbinski, 2006). 

The Flying Dutchman di Fabrizio Cotognini raccoglie e rilancia queste rappresentazioni restituendoci una serie di piani-sequenza e di «immagini-montaggio» (Didi-Hubermann) che uniscono visioni, citazioni, omaggi, scoperte e riscoperte di romanzieri, poeti, drammaturghi, cantanti, fumettisti, registi cinematografici e artisti. Un teatro di narrazioni polifoniche e metatemporale, collocato all’interno di un tempo ciclico, dove la tradizione storico-letteraria risorge dalle proprie ceneri nell’eterna ricerca dell’attualità, nel tentativo, riuscito, di mettere in forma un’esperienza sensoriale sinestetica e atemporale.

La Grande Opera alchemica e distopica di Cotognini monta tempi eterogenei, offre una visione caleidoscopica enfatizzata dai molteplici media utilizzati e dalle loro ibridazioni, mirando, con occhio provocatoriamente anacronistico, dentro le pieghe della storia e dell’arte. Ed ecco che il sogno del teatro totale di Piscator incontra il cineocchio di Dziga Vertov, le macchine pre-cinema di William Kentridge gli assilli alchemici di Vettor Pisani. 

D’altronde, «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace piú degli altri di percepire e afferrare il suo tempo», afferma acutamente Giorgio Agamben. La contemporaneità emerge, dunque, secondo il filosofo, da una singolare relazione col proprio tempo, ovvero attraverso una sfasatura e un anacronismo, sospesa tra l’arcaico e il moderno, l’attuale e l’intempestivo, il tempo e la moda, il buio e la luce. Ed è in questa relazione apparentemente inconciliabile, che si situa, a mio avviso, il Wesen della Grande Opera di Fabrizio Cotognini, ovvero tutta la sua inattuale contemporaneità.