Il tempo, la memoria e la storia. Lo spazio, infine. Ma soltanto (o soprattutto) lo spazio radioso e riflessivo della pittura. È attorno a queste figure maestose – figure capovolte, stravolte o incurvate in un apparato scenico teso a sospenderne la stabilità – che il lavoro di Fabrizio Cotognini trae mosse irrinunciabili e vitali per costruire un discorso in cui la parola sposa l'immagine per farsi luogo di contemplazione e, nel contempo, di concentrazione riflessiva. Ma anche apparente – e soltanto apparente – nota a margine che ricorda le delizie intime di un libro antico. Finanche di una miniatura tardogotica o di un raro decoro che lascia intravedere la scrupolosa cura per ogni singolo particolare.
Riappropriandosi della superficie e stabilendo un rapporto analitico con segni ancestrali, alchemici o misteriosofali l'artista pone l'accento su una ricerca che recupera l'immaginario rinascimentale per produrre strutture complesse, rebus estetici in cui è possibile rintracciare segni e disegni che, se da una parte ricercano l'armonia e la centralità, dall'altra, viceversa, richiedono una essenziale irregolarità e un necessario sviluppo laterale della composizione.
Nelle sue opere, a ben vedere, sembrano convivere – e condividere uno stesso habitat creativo – le categorie individuate da Heinrich Wölfflin nel suo prezioso (e discusso) volume dedicato ai Concetti fondamentali della storia dell’arte. Lineare e pittorico, forma chiusa e forma aperta, rappresentazione in piano e rappresentazione in profondità, molteplicità e unità, chiarezza assoluta e chiarezza relativa sono, difatti, classi bipolari assimilate e riversate in uno scenario unitario qui fonde le discours critique du penseur.
La parola (2009), La sorgente (2009), La piaga (2010), Il numero 8 (2010), Apostasia (2010), L’amore al tempo del colera (2011), Studio allegorico del volo (2011). E poi, il prezioso Libro di Sabbia (2009-2011), il lavoro su Oloferne (2011), quello sul Panopticon (2011) o quello sulla figura di Alessandro Magno (2011). Senza tralasciare, poi, alcuni esercizi davvero singolari come lo splendido Omaggio a Gino De Dominicis (2011), l'installazione ambientale Qualcuno ha ucciso l'uccello sacro (2011) e il recente racconto sul Passero Solitario che s'intreccia allo studio – per naturale elezione – della vasta immaginazione leopardiana. Sono tutti lavori in cui l'artista riconsidera la storia, la letteratura e la filosofia da un'altezza nuova. Lo stesso vale, tra l'altro, per la rilettura dell'Antico Testamento, che è, per Cotognini, fonte d'inesauribile ispirazione.
Maestro emergente e sognatore che viaggia nel tempo (a detta di Franko B), Cotognini interroga gli stili, le tecniche e i materiali, con una freschissima cleptomania creativa – direi – che mira a condividere con lo spettatore alcune parabole dell'arte in cui l'intensità dell'intelletto rimanda immediatamente alla riappropriazione d'un intervallo perduto (Dorfles) e al consequenziale recupero dei tempi generosi della pittura. Atteggiamento, questo, che si riversa anche nella scelta dei materiali, sempre attentamente selezionati per ogni singolo progetto. Materiali che fanno i conti esclusivamente con sostanze naturali quali la carta, l'inchiostro, la colla di coniglio, la sabbia, la ceralacca, l'olio di lino o l'olio d'oliva. Attraverso l'utilizzo di queste materie Cotognini sottolinea una scelta precisa: quella di depositare nelle mani del tempo – grand sculpteur a detta di Marguerite Yourcenar – la propria opera e lasciare alla metamorfosi continua delle cose, alla patina e al divenire, all'evoluzione postproduttiva e allo sviluppo di interferenze costruttive, l'ultimo orizzonte del proprio operato.
Accanto a questi interventi basilari Fabrizio Cotognini presenta, inoltre, tutta una serie di espedienti utili a trasferire (con un prodotto chimico denominato transcryl transfer medium) alcune immagini – selezionate da una serie di libri antichi (che accumula temporaneamente per procedere, poi, come un collezionista che froda la propria collezione, con un gesto di smembramento) – dal contesto originario all'interno di spazi neoantichi. Di contrade sovrastoriche mosse da un bagliore metafisico e da un sentimento del tempo in cui l'arcaico (mediante la trasposizione, la trasfigurazione, la trascrizione, la riqualificazione e la ricontestualizzazione) si riversa sull'attuale.
Cotognini propone, così, un lavoro in cui l'esperienza speculativa e la pratica artistica si fondono per dar vita ad un corpus rigoroso che non solo interroga gli strumenti della pittura nel momento stesso dell'azione pittorica (Filiberto Menna) ma elabora un programma che trova nella coesistenza (e a volte liquefazione) di stili differenti una sua naturale cifra stilistica.
Il suo è, allora, un lavoro di scavo continuo nella storia e nella scienza dell'arte – nel «mondo della vita e dei mille significati che la riguardano» (Angelo Trimarco) – per riportare alla luce reperti artistici che intrecciano le storie fino a mostrare, via via, un gusto per la solitudine (costruttiva e creativa). Un portamento, questo, che trasforma l'artista in un viaggiatore solitario, appunto. O, per dirla con Musil, in un «anacoreta della conoscenza» che «fissa lo sguardo in un deserto di visioni».